Articoli di Paolo Fuligni - Psicologo Livorno

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Articoli

 

Il depresso non è un diverso, finalmente!

24 APRILE 2015 | di Paolo Fuligni

E meno male! Meno male che, a proposito dello sparatore del tribunale di Milano e del padre che ha portato in Spagna il figlio neonato, né la televisione né gli altri media hanno usato la parola “depressione”. Sì, perché si legge – o si sente dire – costantemente che qualcuno avrebbe commesso qualche terribile azione perché “era depresso”.

Il Tale o la Tale stermina barbaramente la famiglia “perché soffriva di depressione”, così come di “depressione” si è certi che soffrisse il pilota del disgraziato aereo di German Wings precipitato sulle Alpi francesi.

Il disastro sarebbe accaduto perché il pilota “era depresso”, la compagnia aerea è quindi colpevole di aver messo un aereo in mano ad un pilota “ammalato di depressione”, lo sciagurato giovane aveva già, in passato, accusato “sintomi depressivi” e così via.

Il messaggio che passa è unico ed inequivocabile: questa misteriosa “depressione” trasforma diabolicamente delle oneste e brave persone in pericolosi assassini. Chi è “depresso” può compiere stragi e uccidere bambini, oltre che – ovviamente – togliersi la vita, quindi rappresenta un terribile pericolo per la società.

Ma che diavolo stiamo dicendo? Si calcola che vi siano nel mondo 121 milioni di persone che soffrono di disturbi del tono dell’umore di diversa natura e di diversa entità e di questi, solo in Italia, quasi 7 milioni; devono essere tutte considerate come potenziali assassini e/o stragisti?

Devono queste stesse persone angosciarsi ulteriormente – che già lo sono per proprio conto poverette – pensando di poter commettere simili atrocità? Dobbiamo emarginarle, guardarci da loro, allontanarle dal lavoro e dalle più comuni responsabilità, come guidare l’auto o adoperare strumenti o macchinari? Dobbiamo ritenere credibile l’equazione depressione/strage? Assurdo.

Tanto per cominciare l’espressione “depressione” è quanto di più generico e di scarso significato si possa dire; ci sono appunto molte e ben diverse manifestazioni a carattere depressivo, dalle più blande alle più severe e gravose, non certo una sola.

Cerchiamo di capirci, la dispepsia, la gastrite e il tumore del colon sono tutte “malattie dell’apparato digerente”, ma non sono certamente la stessa cosa, sono disturbi diversi, senza alcuna diretta connessione tra loro.

Vogliamo poi ricordare di aver avuto eminenti statisti, grandi attori, meravigliosi artisti e letterati, importantissimi scienziati e persino famosi astronauti, sofferenti di disturbi a carattere depressivo; ciò non ha tolto assolutamente nulla al loro valore personale né a quello della loro opera.

Al tempo stesso vorremmo ricordare che altri aerei carichi di gente innocente – e non uno, ma quattro alla volta – sono stati deliberatamente distrutti da soggetti assolutamente non “depressi”. E purtroppo numerosi genitori – padri e madri – non “depressi” uccidono i figli o sterminano tutta la famiglia; che dicono i media di costoro? Che sono dei criminali? Perfetto, sono completamente d’accordo.

Pensiamo forse che per suicidarsi sia necessario trucidare anche 144 passeggeri e 5 colleghi? Se – ed è necessario dire “se”, perché fino all’ultimo è bene rimanere guardinghi rispetto a certe frettolose “certezze” mediatiche – qualcuno commette un simile spaventoso crimine, è perché insegue una risonanza mondiale, vuole una smisurata platea ad assistere alla propria fine per soddisfare un altrettanto smisurato narcisismo e per compensare una incontenibile frustrazione.

Narcisismo, esibizionismo e frustrazione sono ingredienti assolutamente comuni nel nostro tempo che concorrono validamente a spiegare tanti assurdi crimini da cui quotidianamente veniamo sconvolti, come gli attentati di Boston, di Parigi e di Copenaghen, per esempio.

Per non parlare dell’ego ipertrofico e tremendo di quei supermanager che inseguendo le loro sconfinate idee di grandezza mandano in rovina le loro aziende, innescano colossali crisi economiche e cancellano milioni di posti di lavoro.

Personalità narcisistiche dominate dai propri sogni di successo, accecate dal loro possessivismo e prive degli strumenti psichici necessari per elaborare e contenere le loro terribili frustrazioni e i loro impulsi distruttivi; questo sì è il vero male da cui guardarsi. Il disturbo depressivo, ove sia presente, è soltanto un elemento al contorno.

All’esercito di tutti coloro che soffrono di disturbi del tono dell’umore, e che quindi patiscono tristezza, perdita di interesse o di piacere, bassa autostima, disturbi del sonno e scarsa capacità di concentrazione, che vedono la loro vita forse più brutta e difficile di quanto non sia, che prendono le loro pillole o le loro gocce, mantengono faticosamente i propri impegni e le proprie responsabilità e che, soprattutto, non fanno del male proprio a nessuno, vada la nostra piena solidarietà.

E mai si faccia l’errore di attribuire indiscriminatamente a costoro quelle sconcertanti caratteristiche che appartengono a ben altri personaggi, a ben altre oscure, terribili menti.

 

La bambola no-sexy, il gusto della normalità

18 MARZO 2014 | di Pensiero Solidale

Per la prima volta, da almeno 30 anni, qualcosa sta cambiando in materia di stereotipie di genere. Cambiano i modelli proposti alle bambine, o meglio si offrono finalmente alternative all’immagine di un corpo femminile perfezionistico-supersexy e allo stereotipo della donna casalinga e madre. Al Toy Fair di New York è stato presentato Roominate, un set per costruire case per bambole molto diverse da quelle tradizionali, con lo scopo dichiarato di interessare le bambine alla scienza, all’ingegneria e alla tecnologia.

Madri del progetto Bettina Chen e Alice Brooks, due ingegneri della Stanford University determinate a motivare le bambine a seguire strade differenti da quelle tradizionalmente proposte in seno alla famiglia e alla società.

Con Roominate si costruiscono mobili e arredi per la casa, ma anche case, ponti con cavi di sospensione, edifici e giostre, grazie a motori e circuiti elettrici presenti nella confezione; le autrici sperano così di contribuire all’eliminazione dal mercato di giocattoli differenziati per bambini e bambine. L’ingegner Brooks, cresciuta nel laboratorio di robotica del padre, dichiara di rivolgersi con questo progetto alle bambine perché servono più donne nel mondo della scienza e della tecnica ed è quindi necessario fornire, sin dall’infanzia, stimoli adeguati per favorire lo sviluppo della passione per questo particolare mondo.

Ma ancora più rivoluzionaria risulta la proposta di una nuova bambola, ben diversa da quelle che siamo oramai abituati a vedere. Una bambola con un corpo “normale”, con le sue normali imperfezioni, non un modello di astratto perfezionismo estetico alieno e irraggiungibile. Si chiama Lammily ed ha forme un po’ “rotondeggianti”; è stata creata con cura particolare per rendere al massimo l’immagine della quotidiana realtà, quella della mamma, della maestra o della vicina di casa.

Oltre alla normalità del corpo e alla semplicità del make up, l’autore ha adottato una linea di vestiti molto semplice basata su una camicia bianca e blu, degli short blu e delle comuni scarpine bianche. Se questo modello avrà successo, un domani le donne potranno forse essere liberate dal’obbligo del perfezionismo estetico, dalla tirannia della magrezza estrema e dal ruolo di “robot sessuale” cui oggi sono costrette in ogni situazione ed in ogni ambiente, dalla palestra all’ufficio.

Da subito invece vorremmo liberarci della precoce sessualizzazione dell’aspetto estetico delle bambine; chiediamo, in particolare, alle mamme se è proprio indispensabile vestire pettinare e truccare le bambine e le preadolescenti in modo esplicitamente sexy, inducendo precocemente nelle figlie questo stereotipato ruolo di oggetto sessuale.

È necessario che la maggioranza delle madri prenda coscienza del problema e si schieri con fermezza su questa posizione perché il modello deve essere offerto in modo omogeneo perché possa avere successo; abbigliamento pratico e funzionale, immagine senz’altro piacevole, ma ben poco sessualmente connotata e per niente perfezionistica. Già nel 1990 Gordon definiva l’anoressia come “disturbo etnico”, volendo sottolineare l’origine “culturale” di questo pericoloso disturbo del comportamento alimentare.

Culturale nel senso della cultura del consumismo e dell’esteriorità, cioè della “schiavitù della bellezza” – per le donne naturalmente – e della tirannia di canoni estetici assurdi e impossibili. Parafrasando un’antica famosa esortazione, donne di tutto il mondo ribellatevi.

 

Il cervello? Non ha sesso

1 aprile 2017 | di Paolo Fuligni

Gli uomini sono più bravi a parcheggiare (capacità visuo-spaziale) e le donne sono più empatiche (neuroni specchio); questo perché, secondo la versione online di Die Welt, l’autorevole giornale tedesco, i cervelli degli uomini e quelli delle donne “funzionano diversamente”.

L’articolo si riferiva agli ultimi studi comparati tra migliaia di cervelli femminili e maschili (Sex differences in the structural connectome of the human brain), pubblicati dal gruppo di ricerca di Madhura Ingalhalikar dell’Università della Pennsylvania, indagine con la quale si è immediatamente riaperta la più antica e accesa disputa della storia dell’umanità. Tanto accesa e tanto antica che gli antropologi la chiamano “the longest war”, la guerra per il predomino tra un genere e l’altro.

Gli uomini, ovvero i maschi, non hanno mai mancato di affermare, anzi, di dare per scontata la propria superiorità in ogni settore, tranne forse in quello delle lavatrici e dei ferri da stiro. Le donne sono però insorte opponendo la propria evidente superiorità intellettuale, la propria preminente curiosità e il proprio esuberante dinamismo.

Le donne sono più multitasking, gli uomini sono più determinati, le donne sono più brave negli studi, gli uomini hanno superiori doti di razionalità e meccanica, le donne vedono più particolari, gli uomini sono superficiali, le donne sono troppo emotive; e chi più ne ha più ne metta. Per ognuna di queste differenze, e di quante mai ne possano venir fuori, si è sempre invocata la differenza tra un’area cerebrale e l’altra, ritenendo di poter affermare la maggiore o minore funzionalità di questo o di quel pezzo di cervello nell’uno o nell’altro sesso.

Tutto però senza nessuna circostanziata prova e quindi senza alcun risultato. Ma, in sostanza, cosa hanno detto di nuovo in proposito i ricercatori della Pennsilvania University? Con l’impiego di una tecnologia molto avanzata, la DTI (Diffusion Tensor Imaging), ovvero la risonanza magnetica con tensore di diffusione, detta anche “trattografia”, hanno studiato il decorso delle fibre nervose nel cervello rilevando che – mediamente – nelle donne si nota una più fitta rete di collegamenti tra un emisfero e l’altro mentre negli uomini si ha – sempre mediamente – una maggior connessione all’interno dei singoli emisferi.

Lo studio non riporta peraltro valutazioni sugli effetti delle differenze statisticamente osservate in ordine a diverse attitudini o capacità tra un genere e l’altro. La pubblicazione di questo studio è però bastata a ridare vita e slancio ai più diffusi stereotipi sulla differenza di genere, compresi quelli più vieti e impresentabili.

Nel vasto dibattito apertosi nel mondo scientifico a seguito di questa pur interessante indagine, si è fatto notare che le suddette “differenze” non sarebbero significative né dal punto di vista numerico-statistico, né da quello strettamente anatomico. È infatti ormai noto e comprovato il fenomeno della “neuroplasticità”, quello per cui differenti addestramenti generano differenti dimensioni e differenti collegamenti nell’architettura neuronale. Sarebbe a dire che l’esercizio intensivo di determinate funzioni genera, appunto, l’aumento del volume delle aree cerebrali implicate e del numero delle sinapsi coinvolte nel processo.

Come si può quindi affermare che esistano in natura un cervello “femminile” ed uno “maschile” e che – se differenze ci siano – esse non dipendano semplicemente dal modellamento della cultura? E avremmo quindi una testa da donna o una da uomo solo in ragione dei diversi percorsi di esercizio e di apprendimento che la nostra cultura diversamente offre – o impone – ai maschi e alle femmine e saremmo quindi liberi di sviluppare qualunque capacità prescindendo dal sesso di appartenenza.

Potremo quindi essere uomini sensibili ed empatici o donne magnificamente capaci di parcheggiare anche negli spazi più angusti e difficili, mariti capaci di andare a buttare la spazzatura e mogli tifose di calcio; di fatto, più seriamente, abbiamo già ottimi ostetrici maschi e fantastici ingegneri meccanici femmine. La morale di questa storia è che regolarmente le pubblicazioni scientifiche in materia di presunte differenze tra un genere e l’altro creano grande risonanza ma, ahimè, ancor più grandi distorsioni mediatiche.

Dati parziali o non significativi assumono prontamente sui media il carattere di verità scientifica, diventano la “prova” che finalmente conferma e legittima gli stereotipi di genere. Stiamo sereni, certamente donne e uomini sono tra loro diversi – e va benissimo – ma per la diversa storia di cui sono portatori sin da bambini e quindi per il diverso percorso della loro formazione. Il cervello – fortunatamente – non fa la differenza; sempre quello è, basta soltanto saperlo adoperare.

 

Ecco il (vero) cibo della mente

29 NOVEMBRE 2015 | di Paolo Fuligni

Cibo per la mente in senso stretto, non figurato; non filosofia e letteratura quindi, ma salmone, cacao, mirtilli e arance e, più in generale, tutti gli alimenti con un elevato contenuto di omega tre – acidi grassi polinsaturi – e di polifenoli. Quanto queste sostanze alimentari siano preziose nella prevenzione di malattie importanti, avendo azione anti-aterogena, anti-ossidante e anti-cancerogena, è ormai largamente noto e la diffusione di queste conoscenze ha già orientato un vasto pubblico di consumatori verso un ampio utilizzo di prodotti di questa natura.

Adesso però si va sempre più consolidando l’opinione che pesci grassi e frutti rossi contribuiscano in modo determinante al miglioramento dei processi cognitivi e del tono dell’umore agendo positivamente sulla neuroplasticità e sulla neurogenesi adulta. Termini questi sicuramente non familiari né facilissimi da spiegare; i meccanismi della plasticità neurale consistono nella capacità delle cellule nervose di ripararsi, di aumentare l’ampiezza della loro naturale ramificazione e di interconnettersi maggiormente mediante lo sviluppo di nuove sinapsi e l’ottimizzazione della funzionalità di quelle già esistenti.

La neurogenesi è invece la capacità di determinate aree dell’encefalo – e in modo particolare dell’ippocampo – di produrre, anche nell’adulto, nuove cellule nervose capaci sia di sostenere e potenziare diverse importanti funzioni, come memoria e apprendimento, sia di aiutare a prevenire e combattere disturbi di carattere depressivo.

La letteratura scientifica in materia ci sta spiegando che sia i disturbi depressivi che l’azione dei farmaci che combattono la depressione, dipendono non solo da alterazioni dei neurotrasmettitori – serotonina, adrenalina e dopamina e i relativi recettori cerebrali – ma anche, appunto, dai processi che governano l’efficienza e la produzione dei neuroni.

Studi condotti per oltre un decennio hanno dimostrato l’influenza di una specifica dieta su memoria, capacità attentiva, tono dell’umore e capacità di resistere allo stress. Ovviamente, dagli stessi studi, risulta dimostrato anche come una pessima alimentazione abbia effetti diametralmente opposti; l’abuso di zuccheri e grassi saturi – come di alcol, fumo e altre sostanze neurotossiche – contribuirebbe infatti a indurre stress e calo delle capacità cognitive e del tono dell’umore.

Pensiamo come sia pericoloso non solo per il cuore, ma anche per il cervello, arrivare a casa stressati dal lavoro, riempirsi di schifezze in piedi davanti al frigorifero e stravaccarsi sul divano col telecomando in pugno. Al contrario, una dieta ad altissima concentrazione di omega tre e flavonoidi, protratta per un tempo ragionevolmente lungo, potrebbe addirittura rappresentare una sorta di terapia, paragonabile a quelle comunemente praticate e basate sull’impiego di farmaci antidepressivi.

La faccenda non è purtroppo così semplice perché, se un certo alimento possiede, in teoria, una forte attività antiossidante o altre attività biologicamente vantaggiose, potrebbe nella pratica risultare inefficace se, per qualche motivo, non raggiunge il bersaglio. Non è solo importante conoscere le proprietà benefiche di un alimento specifico, è ancora più importante sapere quanto di esse sia effettivamente “biodisponibile”; la ” biodisponibilità ” è la reale capacità di una certa sostanza di arrivare agli organi su cui dovrebbe agire.

In altre parole, bisogna vedere quanto della quantità ingerita dei polifenoli sia realmente in grado di esercitare i suoi effetti sull’organismo. Numerosi fattori possono alterare le caratteristiche di questi nutrienti rendendoli inefficaci; ad esempio, l’olio extravergine di oliva risulta salutare solo se crudo ed estratto a freddo perché una elevata temperatura ne compromette radicalmente l’efficacia. Questi alimenti devono quindi essere di buona qualità, ben cresciuti e ben trattati, freschi ed esenti da alterazioni fisiche e chimiche.

Roba buona insomma e anche bella da vedere; un trionfo di colori che ci segnalano il buon cibo per la mente. Arance, lamponi, cipolle rosse, broccoli verdi, sambuco nero, mirtilli blu e rossi, cioccolato fondente, mele e melograne, tè verde, zucca gialla; anche il vino rosso, è vero, ma sarà meglio non esagerare. Forse, un domani, invece di andare in farmacia, andremo allegramente al mercato.

 

La paura (sconfitta) di volare

4 GIUGNO 2016 | di Paolo Fuligni

Oggi si vola, finalmente! Il titolo del classico di Faulkner è quanto di più indicato per riassumere la buona notizia che viene da Palermo: la paura di volare si può battere con poca spesa ed in poco tempo. L’Unità operativa di Psicologia dell’ASP di Palermo insieme all’ENAV, alla società di gestione dell’aeroporto Falcone e Borsellino, la GESAP, all’Italian Flight Safety Committeee e alla compagnia aerea low-cost Volotea, hanno lanciato su larga scala la battaglia alla paura di volare; e la stanno vincendo.

Tutto è iniziato qualche anno fa, a Palermo, per l’impegno della dottoressa Maria Teresa Triscari, psicologa e psicoterapeuta, che sin dal 2009 aveva organizzato interventi terapeutici a favore dei portatori della fobia del volo. Rilevante il fatto che in una struttura sanitaria pubblica ci si occupasse di questo; l’aerofobia poteva infatti apparire una sorta di “problema di lusso”, cosa marginale di scarso impatto e di scarso rilievo clinico e sociale.

Così di fatto non è. L’aerofobia o aviofobia, come veniva un tempo chiamata, non è un disturbo da poco; genera sovente seri problemi familiari e di coppia perché impedisce di usare l’aereo anche a chi ben volentieri lo farebbe ma ha un partner – o un altro familiare – che assolutamente rifiuta di salirvi. Può anche rappresentare un severo limite a numerose carriere professionali – oggi muoversi rapidamente nel mondo è diventato indispensabile – o un danno per aziende che, per tali difficoltà, non possono impiegare alcuni pur validi collaboratori in missioni all’estero.

Ne deriva poi, per i portatori, un danno esistenziale, per l’impedimento alla conoscenza del mondo e per il sentimento di emarginazione e di inferiorità che ne consegue.

È poi indiscutibilmente un pesante ostacolo allo sviluppo dell’impiego del mezzo aereo e quindi rappresenta un costo tutt’altro che irrilevante per gli operatori del settore. Sì, perché l’Italia è uno dei paesi in cui la paura di volare risulta particolarmente diffusa; una ricerca del 2011 la stimava presente – in diversi gradi – in quasi due italiani su tre.

Ci sarà ovviamente una ragione se l’Italia risulta, percentualmente, ai primi posti nel mondo per la paura di volare; presumibilmente una ragione fondata sulla cultura e sulla storia di questo nostro paese. Paese piccolo – rispetto all’America o alla Russia – in cui le distanze da coprire sono comunque modeste, paese fino a ieri troppo povero per permettersi viaggi e vacanze internazionali, paese in cui, fino alla soglia degli anni novanta, pochi sono quelli che pensano a viaggiare in aereo.

Ma con lo sviluppo della civiltà dei consumi e lo sbocciare delle compagnie low cost, volare non è più un lusso e diviene progressivamente prima un’opportunità, poi una necessità; e chi ne ha paura sperimenta il peso dell’esclusione e il sentimento della sconfitta. Ma ecco che, poche settimane fa, Volotea, compagnia aerea con sede a Barcellona e operante negli aeroporti italiani, rilancia e supporta il programma terapeutico dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo mettendo a disposizione personale di bordo e organizzando visite per mostrare tutte le fasi di un viaggio aereo – passando dal check al controllo sicurezza fino all’imbarco dei passeggeri in aeromobili basati a Palermo – per sperimentare l’interno della cabina e tutte le sue caratteristiche.

Il percorso terapeutico, sempre sotto la guida della dottoressa Triscari, prevede dieci sedute di terapia cognitivo comportamentale – al costo complessivo di 100 euro di ticket – durante le quali i pazienti con la fobia del volo avranno appunto anche l’occasione di prendere dimestichezza con l’aeroporto, il check-in, gli aerei, di visitare la torre di controllo di Palermo e, a conclusione della terapia, effettuare anche un piccolo battesimo del volo.

L’approccio cognitivo comportamentale all’aerofobia non è una novità, naturalmente, ed ha dato spesso buoni risultati in tempi accettabili; ma se una compagnia aerea e un moderno aeroporto mettono a disposizione il loro personale esperto, le loro strutture e le loro risorse per consentire agli aviofobici un progressivo e rassicurante contatto con la complessa realtà dell’aereo e del volo, il gioco diventa decisamente più facile, veloce e redditizio.

La principale esigenza del fobico infatti è appunto quella di entrare in contatto con ciò che teme pur rimanendo in una situazione che può controllare e da cui, volendo, è libero di uscire; decisivo quindi l’ingresso in campo di compagnie aeree e società di gestione aeroportuale che contribuiscono offrendo appunto questa opportunità di sperimentare la situazione senza esser subito costretti a volare per davvero. E non solo per bontà d’animo, naturalmente, non solo per aiutare coloro che soffrono di questa fobia, ma anche per attrarre questa importante fetta di mercato che raramente viene considerata ma che si stima, in Italia, attorno ai tre milioni di potenziali utenti.

A Palermo si danno da fare e con successo, vediamo cosa sapranno fare anche un po’ più in su, là dove di solito si è abituati a ritenersi più bravi.

 

Gli angeli che combattono il terrore dell'anima

di Paolo Fuligni, 28 luglio 2016

Sono accorsi a Nizza, poche decine subito, poi più di cento. Con poco o punto coordinamento, volontariamente, spontaneamente, gli psicologi francesi si sono mobilitati per soccorrere non le vittime, ma gli scampati dell’orrendo crimine della Promenade des Anglais.

Centinaia di persone che non sono state fisicamente colpite nella folle corsa del terrorista assassino, che non hanno, fortunatamente, riportato ferite. Quelli che il caso ha risparmiato, quelli che erano mezzo metro più in là, quelli che sono riusciti a scansarsi all’ultimo istante, quelli che sono stati spinti lontano dal pericolo da un casuale movimento della folla.

Quelli rimasti illesi nel corpo, ma gravemente feriti nella mente, quelli che continuano a vivere gli stessi terrificanti momenti, le stesse terribili scene; quelli che hanno visto morire i familiari o gli amici, quelli che hanno visto le persone vicine travolte dal maledetto camion bianco. Un terribile senso di colpa occupa la mente di chi si è salvato ma ha assistito alla morte dell’innocente che gli stava accanto; del bambino, dell’anziano, della donna, dell’uomo che non ce l’hanno fatta.

Un caratteristico, violento disturbo psichico, Disturbo post traumatico da stress, recita il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali: “La persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. La risposta della persona comprende paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore. Nei bambini questo può essere espresso con comportamento disorganizzato o agitato.

“Sono ferite gravi, profonde che possono rimanere anche per tutta la vita. I bambini manifestano la loro angoscia prevalentemente col silenzio; rigidi, gli sguardi fissi, tanta paura, un’insicurezza totale, irrimediabile. Hanno visto la morte accanto a sé, alcuni hanno perso genitori, nonni, amici. Erano stati portati ad una festa, giovedì scorso sulla Promenade, con la gioiosa prospettiva di vedere i fuochi. La loro allegria è stata spazzata via dal terrore più assurdo e violento.

Gli adulti cercano di verbalizzare le loro ossessioni, le immagini che non si possono cacciare, il tormento di quello che non sono riusciti a fare: la persona che non hanno potuto avvertire di ciò che stava accadendo, la persona che è stata trascinata via, la persona ferita che non sono riusciti ad aiutare. L’incredibile senso di colpa di essere ancora vivi.

È estremamente importante che l’intervento su questi traumi psichici sia tempestivo e competente; e proprio per questo gli psicologi francesi si sono precipitati qui, sulla Promenade des Anglais, a due passi dall’imponente Hotel Negresco.

Una palazzina liberty affacciata sul lungomare è stata adattata a servire da pronto soccorso psicologico; è il Centre Universitaire Méditerranéen, fino a ieri centro congressi e sede delle riunioni del Consiglio della Città Metropolitana, un bell’edificio dotato di un ampio anfiteatro in cui si sono improvvisati spazi per creare ambienti per far giocare i bambini, per realizzare gruppi di sostegno, per ospitare colloqui e sedute di psicoterapia.

Qui i colleghi volontariamente accorsi, abbandonando senza preavviso i loro studi e i loro abituali pazienti, affrontano le angosce dei sopravvissuti, li aiutano ad esprimere e a consapevolizzare le intollerabili impronte che la sciagura ha inciso nelle loro menti, a combattere le insostenibili idee intrusive che incessantemente assediano la loro psiche, a rielaborare memorie che la coscienza non sopporta, a ritrovare la percezione di un presente doloroso ancorché ormai esente da minacce.

E offrono attività ludiche ai bambini, propongono giochi per catturare la loro attenzione e allontanarla dagli incubi, farla ritornare alla normalità, ai pensieri e alle fantasie che comunemente ci si augurano in un’infanzia normale. Bravi psicologi francesi, generosi e solleciti, genuinamente solidali e disinteressati; nel buio spaventoso di una gigantesca tragedia generata dall’odio e dalla follia, avete portato la piccola luce di un impegno competente e umano.

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Le vie maestre della Maremma e dell'anima

8 dicembre 2014 | di Paolo Fuligni

Traversando la Maremma Toscana, così Giosuè Carducci nel 1885 intitolava una poesia che cominciava con le parole "dolce paese onde portai conforme l'abito fiero e lo sdegnoso canto", volendo l'autore sottolineare l'impronta profonda che la sua persona aveva ricevuto da quel territorio ed il vincolo culturale che ad esso lo legava.

In tal modo il poeta, con la sua intuizione, anticipava un concetto moderno introdotto alla fine del novecento da quella bella branca della psicologia che si occupa della relazione tra l'ambiente e le persone che lo abitano; si tratta del concetto di "identità di luogo". Per spiegarlo in poche righe possiamo dire che il luogo in cui si cresce e si vive induce inevitabilmente un forte senso di appartenenza, un'esperienza originaria collettiva e modellante.

Quel luogo infatti non è solo ambiente fisico ed estetico, ma anche sede di ricordi e di emozioni che sono stati strumenti della propria formazione e tappe fondamentali della propria storia personale. Quel territorio, bello o brutto che sia, non va considerato esclusivamente dal punto di vista morfologico o geografico, come fosse semplicemente il contenitore o lo scenario della vita delle persone che lo abitano; bisogna anche tener conto di quante e quali vicende di quei luoghi siano state, di generazione in generazione, raccontate e condivise.

Bisogna comprendere l'importanza della rappresentazione collettiva dei luoghi medesimi così come si è impressa nella mente dei residenti sulla base della comune storia. Ci si identifica con un dato ambiente perché appunto ci si sente parte di esso e si vive un sentimento di continuità spazio-temporale e di appartenenza col proprio territorio. Ci si riconosce in quel paesaggio e in quella storia oltre che nel linguaggio e nella comunità dei concittadini.

Ma, tornando in Maremma - quella toscana ma anche quella laziale - se lasciamo le vie di scorrimento veloce e prendiamo per le stradine provinciali andando in giro tra Grosseto e Viterbo, avremo la possibilità di vivere esperienze di grande valore estetico oltre che assai piacevoli e benefiche. Abituati a città, autostrade e viadotti, scopriamo una grande estensione di territorio ove si alternano coltivazioni e boschi; vigne e olivete fanno da padrone, ma non mancano i pascoli – con relative pecore, mucche e cavalli – né i campi di cereali.

Un ambiente in gran parte antropizzato, ma singolarmente esente da infrastrutture impattanti. Case coloniche tradizionali, modeste e ben tenute, fatte di mattoni, legno epietre; strade piccole con tante curve, minuscoli cimiteri; all'improvviso ti accorgi dell'assenza del cemento. Per quanto ci sia anche qualche agriturismo, le relative strutture non concedono gran che alle esigenze commerciali e non tentano di mettersi in mostra esibendo, ad esempio, piscine dal fondo turchese evidenti come un pugno in un occhio; conservano piuttosto il loro onesto aspetto di poderi maremmani.

Vero è che capita di incrociare grossi e rombanti pick -up dal look squisitamente americano, ma in giro prevalgono il trattore col rimorchio, la vecchia Panda e l'immortale “Apino”. Anche i paesi che si incontrano di tanto in tanto, quasi sempre arroccati in cima ai colli – l'antichissima “posizione etrusca” - mantengono un'architettura tradizionale, non necessariamente bellissima ma ancorata al gusto e alle abitudini dei residenti. Il resistere dell'economia rurale che qui è indubbiamente solida e competitiva, mantiene abbastanza invariato il paesaggio, tradizionali le case e i paesi e viva la cultura locale.

I maremmani son gente solida e accogliente che mantiene nel tempo il gusto di una bellezza sobria e, soprattutto, di uno stile di vita essenziale, scevro di tentazioni particolari verso il superfluo e di grandi concessioni all'apparenza. Per questo qui le persone sono un po' meno sensibili alle mode correnti, le vetrine dei negozi possono apparire obsolete e l'abbigliamento e i consumi risultano un po' meno massificati di quanto non accada nei grandi centri urbani industriali.

È assai probabile che i giovani se ne lamentino – naturalmente - e che ambiscano vivere come i coetanei delle grandi città, inseguendo modelli comportamentali trans-nazionali Che però esistano ancora paesaggi, ambienti e culture così antichi e piacevoli è comunque una cosa bella da sapere che, in qualche modo, lenisce le nostre quotidiane angosce esistenziali e un po' ci rasserena.

 

Cresce il cervello cala la paura

2 ottobre 2014 | di Paolo Fuligni

Buone notizie per chi soffre d'ansia e di paure irrazionali, per chi continua ad affrontare certe circostanze con trepidazione e per chi continua a sognare – in modo angoscioso ovviamente – l'esame di maturità. Si è recentemente scoperto che il cervello possiede strumenti per rimediare, anno dopo anno, ai disagi provocati da passate brutte esperienze e dai relativi ricordi disturbanti e ansiogeni.

Un vecchio detto popolare esorta chi, per disgrazia, abbia a cadere dalla bicicletta, a risalirvi senza indugio. Il senso del discorso è immediatamente evidente: se fai una brutta esperienza non lasciare che te ne resti il ricordo, sforzati di ripetere subito l'azione e di superarla per conservare in memoria quell'ultimo positivo risultato. Se invece resti condizionato dall'incidente o dalla sconfitta, prendi tempo e rinvii il confronto con quel genere di eventi, è assai probabile che la tua memoria registri la faccenda in un modo tanto profondo e incisivo, quanto pesantemente ansiogeno a fronte di future esperienze analoghe o anche soltanto vagamente simili.

Se poi, come nel caso di quei disturbi d'ansia che si definiscono “postraumatici”, il malessere sia stato provocato da un vissuto autenticamente drammatico, da un evento che abbia realisticamente comportato grave minaccia alla propria vita o a quella di persone care – come può succedere, ad esempio, in guerra o durante un terremoto o per l'esposizione ad azioni criminose violente – la relativa memoria risulterà indelebile e continuamente disturbante generando una severa compromissione delle capacità relazionali, sociali e lavorative della vittima.

Ma le neuroscienze, fruendo di tecnologie sempre più sofisticate ed efficaci, hanno scoperto che il cervello si adopera per fornire a chi soffre di tali problemi dei concreti strumenti per migliorare la propria qualità di vita. Anche se per secoli si è creduto che le cellule nervose non si generassero più nell'età adulta, in realtà almeno due diverse aree cerebrali continuano a far nascere neuroni nell'arco di tutta l'esistenza dell'individuo: una che ha a che fare con l'olfatto e una che invece ha molto a che vedere con l'apprendimento, la memoria e le emozioni.

Apprendimento, memoria, emozioni; a tutti appare ovvio che la memorizzazione di fatti emotigeni sia veloce e persistente. Ma la memoria non è solo registrazione; è anche catalogazione, collocazione e soprattutto rievocazione. Bene, due ricercatori della Columbia University, Mazen Kheirbek e René Hen, hanno indagato la funzione delle cellule nuove, prodotte dalle staminali neurali, in una zona ben precisa dell'ippocampo – il giro dentato – scoprendo che tali neuroni sono coinvolti nei processi di discriminazione tra ricordi diversi.

Per dirla in breve, con l'aumento del numero di cellule nuove in tale area, aumenta anche la capacità dell'individuo di distinguere tra ricordi simili ma non uguali presenti in memoria.

Così, chi per esempio abbia avuto un brutto episodio ansioso in aereo, dovuto a cause contingenti, riuscirà a ricordare di aver volato senza problemi tante altre volte e non si paralizzerà per l'angoscia al momento di salire nuovamente sull'aereo.

Queste nuove cellule nervose dell'ippocampo aumentano con l'aumentare dell'età e questo contribuisce a spiegare perché gli adulti riescano di solito ad affrontare e risolvere meglio le loro paure rispetto agli adolescenti. Distinguere con chiarezza tra la brutta esperienza che ti ha provocato dolore ed angoscia e la nuova occasione – simile, ma NON uguale – consentirà di andare avanti nella vita affrontando nuove prove senza dover soffrire o bloccarsi per l'invadenza di brutti ricordi relativi a quelle precedenti. Il sogno di tutti gli psicologi, ovvero sconfiggere la pesante influenza di un passato disturbante, sembra quindi molto più facile da raggiungere e molto più vicino.

Vero è che le tecniche più avanzate di psicoterapia già da tempo sono orientate in questo senso, ma questa conferma che giunge dalle neuroscienze e che apre nuovi scenari terapeutici – probabilmente anche in campo farmacologico – ci dona ottime ragioni di ottimismo e di speranza rispetto alla possibilità di superare quegli odiosi e inutili limiti che frequentemente l'ansia ci impone.

 

 Cervello batte HAL

27 MARZO 2014 | di Paolo Fuligni

Uno dei massimi istituti giapponesi di ricerca scientifica, il RIKEN – Advanced Institute for Computational Science – ha recentemente programmato un supercomputer servendosi di un software open source NEST – NEural Simulation Tecnology – al fine di simulare il funzionamento di una rete di 1,73 miliardi di neuroni connessi tra loro da 10,4 trilioni di sinapsi.

L'obiettivo dell'esperimento era quello di valutare i limiti dell'attuale capacità di simulazione dell'attività di una struttura biologica grande circa 2 volte meno di un cervello umano. Al tempo stesso si valutava la capacità di calcolo del supercomputer Kei, uno dei computer più moderni e potenti al mondo, dotato di 705.024 processori per circa 1,5 milioni di gigabytes di RAM. Il computer, il cui nome deriva dalla parola giapponese kei (che vuol dire "10 biliardi"), è stato prodotto dalla Fujitsu per conto dell'Istituto RIKEN a Kobe in Giappone.

Nel Novembre 2011 è stato il primo congegno al mondo a superare la soglia dei 10 petaflops (Floating Point Operations Per Second), ovvero dei 10 biliardi di calcoli al secondo a cui deve il suo nome. Il supercomputer ha raggiunto comunque una completa operatività solo verso la fine del 2012.

Malgrado le sue eccezionali capacità, però, Kei ha impiegato 40 minuti per riprodurre l'uno per cento delle attività che un cervello umano svolge comunemente in un secondo. Buon vecchio cervello! Nonostante sia un modello di almeno 35 mila anni fa – o più, secondo diverse stime - rimane sempre il più veloce; oltre ad essere estremamente piccolo e leggero, naturalmente.

Eppure nessuno se ne rende pienamente conto di questa fantastica, continua attività del nostro cervello; nessuno riesce a credere che il supercomputer sia – per ora almeno – così al di sotto delle quotidiane prestazioni di un encefalo umano. Proviamo allora a pensare come la nostra vita, in ogni istante, sia mediata dalle informazioni che gli organi di senso inviano al cervello e che questo elabora in microsecondi operando confronti con miliardi di dati in memoria e generando processi associativi che attivano milioni di automatismi.

Così, per esempio, guidiamo l'auto ascoltando la radio o conversando con gli altri passeggeri, riuscendo a seguire un percorso prestabilito nella mente e a riconoscere i punti di riferimento – cartelli stradali, imbocchi di autostrade, rotatorie ecc. - utili per svoltare o cambiare strada al momento giusto; e siamo anche capaci di reagire con estrema prontezza ad eventuali anomalie del traffico, evitare un altro veicolo, frenare per un ostacolo improvviso, accorgerci di un autovelox e – persino! - di ammirare e commentare il paesaggio.

Così un odore percepito per caso, in strada, mentre camminiamo di fretta, o un cambiamento della luce del giorno attraverso la finestra dell'ufficio, mentre siamo immersi nel lavoro, d'improvviso ci proietta in lontani ricordi, in mondi assai diversi e remoti, colmandoci di emozioni forti e del tutto impreviste.

E riviviamo un luogo dell'infanzia o una persona cara che non c'è più, con una incredibile ricchezza di immagini, con un così grande dettaglio di particolari che mai avremmo detto, che non sapevamo proprio di possedere; e con un imbarazzante nodo alla gola .Questo perché pare che l'encefalo umano lavori a oltre 38 petaflops, valore tuttora leggendario per i supercomputers. Buon vecchio cervello, sei sempre il migliore.

 

 

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